
Amal Haouet
Nell’ottobre del 2021, il presidente tunisino Kais Saied, ha nominato Najla Bouden Romdhane primo ministro, facendo della Tunisia il primo paese arabo con una donna presidente del Consiglio. La decisione ha avuto ampia eco e raccolto grande interesse ed entusiasmo all’estero. Ma se si guarda al contesto in cui occorre - un paese da un anno senza parlamento, dove il governo non dipende quindi dalla fiducia delle camere, ma solo da quella del presidente - viene spontaneo chiedersi: fino a che punto la nomina di Bouden è una buona notizia?
A sollevare la questione sono state da subito molte attiviste tunisine, che hanno denunciato la nomina come un tentativo di pinkwashing. Con la sospensione del parlamento e il depotenziamento dell’esecutivo annunciati dal presidente Kais Saied a luglio 2021 e formalizzati poi a settembre, Bouden di fatto non gode dei poteri che la Costituzione tunisina le garantirebbe. Il suo governo, infatti, non dipende dalla fiducia del parlamento tunisino - chiuso ormai più di un anno - ma solo dalla volontà del presidente della Repubblica. Insomma, si tratterebbe di una carica pressoché onoraria, una nomina puramente di facciata. Una critica che non è nuova nel paese e ricorda quelle rivolte per decenni al “femminismo di Stato” dell’ex presidente Habib Bourguiba.
All’indomani dell’indipendenza dalla Francia, il primo presidente della Tunisia, Habib Bourguiba, varò il Codice dello statuto della persona, una serie di leggi che instaurano l'uguaglianza di genere in diverse aree della società. Le donne tunisine, infatti, hanno ottenuto diversi diritti prima di tanti paesi europei, come l’aborto nel 1973. Nel 1993, durante la presidenza di Zine El Abidine Ben Ali, è stata approvata un’altra importante riforma che ha permesso alle donne di passare la propria nazionalità ai figli.
Con la rivoluzione del 2011, però, sempre più donne hanno cominciato a denunciare come queste leggi in realtà non avessero conseguenze dirette ed evidenti sulla natura fortemente patriarcale della società e della politica tunisina. Ad oggi, molti problemi come le violenze domestiche, i crimini d’odio contro le donne, la difficoltà di sporgere denuncia, l’impunità delle forze di polizia e il generale deterioramento delle condizioni economiche e sociali, che colpiscono soprattutto le donne, continuano a non essere affrontati.
Molte attiviste hanno denunciato come alla base di questi problemi ci sia la sospensione, da parte dell’attuale presidente, della Costituzione che era stata elaborata nel 2014. Come dire: senza democrazia, non ci sono diritti per le donne. In tante, allora, portano avanti un impegno dal basso, quotidiano e militante, a favore di quello che nel paese viene definito “femminismo non istituzionale”. Tra loro c’è Amal Haouet, che nel 2019 ha lanciato l’hashtag #EnaZeda, #MeToo in dialetto tunisino, dando il via a un movimento che ancora vive nel paese.
A scatenare le proteste, online e offline, è stata l’aggressione sessuale da parte di un deputato, Zouhair Makhlouf, ai danni di una studentessa, Naima Chabbouh. Il deputato era stato ripreso mentre, dopo aver seguito Chabbouh, allora minorenne, fino a scuola si masturbava nella sua auto. Chabbouh sporse denuncia e postò sui social le immagini che subito diventarono virali. Nel 2021 Makhlouf, in un caso senza precedenti, è stato condannato al carcere.
Haouet ricorda bene il momento in cui tutto è iniziato: "Attraverso i social - racconta - ho iniziato ad accusare Makhlouf apertamente. Trovavo assurdo che lui potesse passarla liscia grazie alla sua posizione politica, mentre la studentessa non veniva creduta”. Così è cominciata una discussione online, su Twitter, dove Haouet ha deciso di condividere la propria esperienza.
“Pur essendo nato solo nel 2019, il movimento è il risultato di tanti mattoncini accumulati nel tempo fin dall’epoca della rivoluzione del 2011. Era solo questione di tempo perché si arrivasse ad affrontare una questione così sentita nel paese come quella delle molestie nello spazio pubblico”.
ASCOLTA L’INTERVISTA